Ha aperto così il suo intervento Piero Poccianti durante il panel a Palazzo dei Giureconsulti sulla Strategia Italiana per l'AI. Premesso che di strategia abbiamo sentito pochissimo, ma probabilmente è colpa nostra, la conversazione è stata comunque oltremodo interessante.
Esiste un elemento umano con cui, allo stato attuale e a quanto pare ancora per molto, questa intelligenza artificiale dovrà fare i conti. Un umano che si esplica e si dipana in molti ambiti, posto che siamo in grado di comprenderlo e gestirlo.
Innanzitutto è necessario, vitale forse, far sì che un numero sempre maggiore di persone capiscano come questi sistemi di Intelligenza Artificiale generativa funzionano. Non si tratta di tecnologie che "ragionano", infatti, ma di tecnologie che, su una base mastodontica di dati, provano a "indovinare" (ci si perdoni il termine poco ortodosso) qual è l'opzione migliore successiva.
Pensiamo alle parole, per esempio. Questa è una attività tipica del cervello umano, provare a indovinare qual è la parola successiva più probabile, più adatta. Lo facciamo a enorme velocità quando parliamo e quando ascoltiamo. E lo fanno anche i modelli di intelligenza artificiale generativa. Qual è la differenza tra noi e questi modelli, allora? Il fatto che noi ragioniamo. I modelli non ragionano, lavorano per probabilità. C'è una enorme differenza.
La differenza che sta tra il comprendere i meccanismi di una tecnologia dirompente che, certamente, sta già cambiando in modo rapido e indiscutibile il mondo in cui viviamo, il nostro modo di fare business, il modo in cui generiamo le informazioni, e il pensare che questa tecnologia sia una specie di oracolo. Non lo è. Si basa su una mole enorme di dati, certo, ma non su tutti i dati. Non è, insomma, onniscente. Già solo rendere la popolazione consapevole di questo farebbe, a mio avviso, una enorme differenza.
Infatti chi è, oggi, che utilizza al meglio questi prodigiosi strumenti? Non chi li interroga come quando si fa una ricerca su Google, e prende per buono qualunque esito ne venga fuori. Bensì coloro che, padroni della propria materia o ambito di intervento e anche minimamente padroni delle tecniche di linguaggio da utilizzare nell'interazione con questi strumenti, sono in grado di valutarne le risposte, le produzioni, la generazione di nuovo contenuto. Sempre per riprendere le parole di Piero Poccianti , "il medico che conosce la medicina".
Una provocazione culturale
Insomma, è vero che questi modelli su cui si basa la GenAI sono di fatto "calcolatori di parole", dice Cosimo Accoto, ma è anche vero che ci sembra si siano appropriati di un qualcosa che, finora almeno, era stata una prerogativa dell'umano. Solo l'umano leggeva, scriveva e parlava. Oggi arrivano invece delle macchine che leggono, scrivono e parlano. E questo ci interroga. È una profonda provocazione culturale.
Non solo. Ma ad oggi chi possiamo considerare l'autore di quello che, per esempio, ChatGPT produce? Il modello linguistico su cui è basato? I dati su cui ha lavorato? Il prompt di chi lo ha interrogato? Dov'è il copyright di quel contenuto? E ancora. Abbiamo ancora bisogno di un diritto di autore?
È un dibattito aperto ed estremamente interessante, proprio perché così come ai problemi tecnici si risponde, di norma, con l'innovazione tecnologica, alle provocazioni culturali si dovrebbe rispondere con una innovazione culturale.
E, naturalmente, il ragionamento non si ferma alle parole, ma va ben oltre, abbracciando il mondo della creatività più in generale. Il famoso esperimento The Next Rembrandt ci pone altrettanti quesiti da affrontare. Come può una macchina capire lo spirito di Rembrandt e "dipingere al suo posto come avrebbe fatto lui?". Forse, e dico forse, opportunamente istruita con una adeguata mole di dati, potrebbe. O forse no. Perché quelle di Rembrandt non erano scelte puramente probabilistiche. Erano scelte estetiche che richiedevano un sacco di studio, investimento, intuizione.
La stessa intuizione che, nell'esempio di Lorenzo Maternini sta alla base del Made in Italy, che porta nel mondo fisico quotidiano qualcosa che non solo prima non esisteva, ma interpreta il gusto della modernità, anticipando qualcosa che probabilmente esiste già nel nostro immaginario ma che ancora non siamo capaci di vedere. E se questo è vero, allora dobbiamo anche ammettere che certamente l'AI entrerà d'imperio nel processo creativo, ma il suo contributo non potrà che essere (almeno allo stato attuale) quello di una scelta estetica passiva. Una rielaborazione dei dati che la macchina ha modo di analizzare. Una rielaborazione creativa molto diversa dall'anticipazione attiva che sta alla base del processo di creazione artistica umana, appunto.
Per fare il salto, sarebbe necessario inserire l'intuizione nei modelli fondativi alla base dell'intelligenza artificiale. Ma chi è deputato a una cosa del genere? Saranno ingegneri, filosofi, psicologi, umanisti? Forse tutti insieme, anzi molto probabilmente tutti insieme. Perché in questo momento in cui ancora una volta l'umanità si è dotata di un nuovo superpotere (Andrea Santagata), la vera sfida del domani sarà quella di inserire le nostre qualità all'interno della macchina e farlo in modo consapevole.